Poche idee, ma confuse ed un unica certezza

Sarebbe stato facile iniziare quest'avventura virtuale ad inizio stagione, quando la squadra bianconera viaggiava a vele spiegate sospinta dal vento di quattro vittorie consecutive.
Sarebbe stato ancora più semplice cominciare a scrivere su questo blog durante l'estate scorsa, tra proclami di vittorie e bagni di folla sognante mentre, scorrendo la lista degli acquisti del più dispendioso calcio mercato degli ultimi anni, il petto si gonfiava orgoglioso leggendo i nomi di Diego e di Felipe Melo ed anche Cannavaro, in fin dei conti, veniva metabolizzato da quella parte di tifosi che avevano visto in lui, a torto o ragione, un "traditore".
Sarebbe stato tutto molto più facile e tutto molto più semplice, ma di facile e di semplice non c'è più nulla in questa stagione juventina.
A cominciare dal suo principio.
E forse proprio l'inizio sfolgorante ha tratto in inganno stampa, critica e tifosi. Pronti via ed il campionato mette l'undici di Ciro Ferrara di fronte a due, consecutivi, durissimi impegni entrambi in trasferta e l'Olimpico di Roma diventa già alla seconda e terza giornata un esame definitivo. Tanto si era scritto sull'inesperienza del neo allenatore bianconero e molto si era discusso su quanto, la scelta della dirigenza juventina, fosse figlia della moda Guardiola piuttosto che di un progetto serio e ragionato.
Eppure la Juventus fece dello stadio romano il suo giardino di casa. Il primo match contro i giallorossi allenati da Spalletti (uno dei nomi in lizza per la panchina torinese prima della scelta di Ferrara) finì con una vittoria così netta da sembrare quasi imbarazzante. Diego nuovo fenomeno, Felipe Melo un giocatore essenziale negli equilibri tattici della squadra, Cannavaro in forma mondiale. Riassumendo 1 a 3. Tutto perfetto, anche troppo.
I tifosi si domandavano se davvero questa non fosse la stagione giusta, la stampa lodava la scelta di Ferrara e la critica tesseva le lodi di Alessio Secco e dei 50 milioni di euro spesi nel modo migliore.
Ma c'era ancora la Lazio da affrontare, la Lazio reduce dai trionfi estivi italo-cinesi, la Lazio che aveva già centrato due obiettivi che i bianconeri avevano messo in cima alla loro lista dei desideri. Vincere un trofeo e farlo in faccia all'Inter!
Ma il film recitato al cospetto della squadra biancoazzurra, seppur leggermente rivisitato nella trama e nei protagonisti, partorì il medesimo finale. Vittoria.
Di nuovo applausi, proclami, titoli in prima pagina. Persino il fin ad allora oggetto misterioso Cacères beneficiò degli elogi di tutti, grazie al suo primo gol italiano.
Arrivò il tanto atteso turno di Champions League e portò una leggera brezza contraria. Il Bordeaux non si fece certo intimidire e tornò in Aquitania con un bel punticino in tasca. La Juve ringraziò Buffon e si disse che aveva difettato in personalità, una caratteristica che va di pari passo con la coesione del gruppo e la comunità di intenti che, forse, una squadra rinnovata per sei undicesimi doveva ancora registrare meglio.
Venne il Livorno e nulla, in campionato, mutò. In quel momento niente e nessuno sembravano poter frenare la carica degli undici bianconeri in vetta alla classifica di Serie A. 2 a 0 e tutti a casa. Certo il Livorno aveva fatto la sua partita ed anche bene. Buffon risultò essere, nuovamente, uno dei migliori in campo ma si sa, quando una squadra come la Juve gioca votata all'attacco, qualcosina dietro la si può e la si deve anche rischiare.
La prima partita di campionato che la squadra bianconera non riuscì a vincere coincise paradossalmente con la Juventus più bella della stagione che per gioco, volontà e carattere superò anche quella di Roma sponda giallorossa.
A Marassi, infatti, contro il Genoa di un Gasperini ex con un pizzico di polemica, venne fuori il bel gioco ed un 2 pari che fece spellare le mani a chiunque. In quel momento la Juventus era, con la Sampdoria di un miracoloso Gigi Del Neri, la squadra più ammirata d'Italia.
E qui possiamo anche fermarci. Da questo momento in poi la Juventus imbocca il sentiero di una crisi di cui, a tutt'oggi, non se ne vede la fine ma della quale comincia ad essere evidente la ragione.
Continuando ad analizzare quello che è stato il percorso bianconero in campionato una situazione però risulta evidente e ricorrente, la Juventus ha giocato le sue più belle partite ed ha ottenuto le sue più sfavillanti vittorie contro squadre che, oggi possiamo affermarlo con certezza, incubavano una crisi che in quel momento magari non mostrava sintomi evidenti ma che ne aveva già infettato gioco e spogliatoio.
La Roma di Spalletti, disintegratasi poco dopo. La Lazio di Ballardini che galleggia senza gioco e senza idee sull'orlo della Serie B. La Sampdoria di Del Neri che proprio il 5 a 1 subito a Torino ha contribuito a far divenire una creatura fragile e vulnerabile. L'Atalanta di Conte, una squadra a cui il cambio di allenatore (papabile mister juventino durante l'estate) non ha certo giovato fino ad oggi. Nel mezzo vittoriucole striminzite (Siena e Udinese) e qualche sonoro ceffone (Palermo e soprattutto Napoli). Proprio la squadra partenopea corsara a Torino evidenziò le crepe juventine. Con una sola mossa (Datolo), Mazzarri diede ripetizioni di tattica al neo allenatore juventino che uscì con le ossa rotte dal confronto, incassando un 2 a 3 senza attenuanti nonostante il doppio vantaggio accumulato con i gol di Trezeguet e Giovinco e mostrò i primi limiti della gestione Ferrara.
Una squadra dunque, quella bianconera, in preda ad una profonda crisi d'identità e di conseguenza di idee e di gioco, non di interpreti per cui. No. Felipe Melo e Diego, non sono due bidoni, Cannavaro non è cotto, Amauri è e resta un attaccante formidabile.
Non è ora il momento di attaccare la società, almeno che non si usino le sconfitte per delegittimare i dirigenti e riconsegnare la squadra in mano alla famiglia Agnelli, che sinceramente non si capisce come potrebbe risolvere problemi che vanno individuati in tutt'altra direzione. Non si può discutere chi ha garantito un investimento di 50 milioni di euro senza indebitarsi, ne chi, come Alessio Secco, con quei 50 milioni ha acquistato due fuoriclasse brasiliani, perché di questo trattasi. Felipe Melo è l'indiscusso leader del centrocampo della Selecao, un giocatore che Dunga schiererebbe anche con una gamba sola, per Diego parlano 5 anni di Bundesliga, numeri di alta scuola, gol incredibili, assist al bacio e soprattutto le partite giocate in Champions League ed ex Coppa UEFA contro Inter, Milan ed Udinese. Incontri che lo hanno consacrato anche agli occhi del pubblico italiano e non solo di sponda juventina. Nossignori, non ci sto a sparare nel mucchio. A questa dirigenza manca certamente l'esperienza "del campo" che solo uomini che l'hanno vissuta per anni possono portare e per questo ben venga un Bettega a fare da collante tra uffici e spogliatoi, ma di certo non difettano le idee ed i progetti. Anche e soprattutto di questo vivranno le società di calcio del futuro. Stadio di proprietà, investimenti nel vivaio, marketing saranno le fondamenta su cui costruire la Juventus vincente dei prossimi anni. Le responsabilità vanno individuate e non risiedono nella palazzina di Corso Galileo Ferraris, ne tantomeno negli undici che scendono in campo, almeno non tecnicamente.
Un solo nome va fatto, detto, gridato, urlato. Ciro Ferrara e la sua pessima gestione fatta di troppi cambi di modulo che possono andar si bene nel corso di una singola partita a seconda delle circostanze, ma che se applicati su larga scala alla lunga confondono anche gli interpreti più illustri.
Chi accetta come lui ha accetatto, di guidare una squadra come la Juventus lo fa consapevole di non poter sbagliare, mai. Lo fa dopo aver valutato pro e contro e non solo l'egoistico prestigio di sedersi su quella panchina, lo fa convinto delle proprie idee e certo che tali idee possano sposarsi perfettamente con gli uomini che ha a disposizione. Gli infortuni costituiscono un alibi esile ed esilarante, poichè gli interpreti da mandare in campo sono sempre stati di altissima qualità ed adattissimi al modulo a rombo tanto caro a l'ex secondo di Lippi. Se si è cambiato modulo passando ai tre dietro l'unica punta, con cui tra l'altro si è giocato e vinto bene, allora si doveva avere il coraggio di ammettere che la Juve, questa Juve non poteva giocare con il rombo perchè povera sulle fasce e fragile nel mezzo e passare definitivamente al 4-2-3-1. Non è stato fatto. Si è saltati da un modulo all'altro a seconda di chi era a disposizione e dell'avversario da affrontare, con l'unico risultato di confondere le idee a chi scendeva in campo, esponendo qualcuno a vere e proprie figuracce, creando incomprensioni tra staff e giocatori e malcontento tra i tifosi. Prima che tutto si sfasci, serve un atto di coraggio, una svolta, una scossa. Ferrara deve dimettersi. Questa è l'unica certezza.
Roma docet. Il giocattolo allenato da Spalletti era perfetto. Poi un ingranaggio si ruppe. I tifosi prima che la società, se ne accorsero. Nonostante i dirigenti giallorossi sembravano ciechi di fronte ad una crisi profonda sia di idee che di gioco, la protesta salì di tono e Spalletti, da uomo onesto intellettualmente qual'è rassegnò le dimissioni.
La storia può ripetersi, anche a Torino.

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